Soverato, “Polvere”: controllo/ossessione nella coppia è violenza. E turba il pubblico del “Grillo”.

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L'applauso finale del pubblico del "Grillo"

Una recitazione secca, fatta di scatti, di un tamburellare di mani sempre più nervosamente da parte di “lui” – Saverio La Ruina nei panni dell’uomo – sul tavolo della cucina di “lei”, Cecilia Foti che interpreta la donna. Due metà di una coppia che si incontra, si attrae, si apre all’inizio di una storia di “amore” dove però di amore ce n’è ben poco, perché l’incalzante ossessione di controllo di lui riempie via via tutta la scena. Il drammaturgo cosentino premiato in mezza Europa per la sua opera, spesso dedicata alla figura della donna incastrata negli archetipi mortificanti della sottocultura maschilista, arriva al Teatro del Grillo di Soverato (Cz) con il suo ultimo lavoro, Polvere, la polvere dei rapporti di potere all’interno della coppia, la polvere sotto il tappeto di parole e frasi offensive, interrogatori di ore intere sul passato di lei, sugli uomini che ha avuto, sul suo essere una donna “non affidabile” perché spunta qualche pezzo di vita non ancora raccontato, e poi perché è stata dipinta da un’amica in un’immagine troppo sensuale, o perché ha incontrato un vecchio amico e non sa dirgli come l’ha salutata (“con i baci, con la mano, ti ha fatto piacere?”) e infine -emblematico! – perché ha spostato una sedia senza saper motivare quando e perché.

Il crescendo ossessivo/offensivo di lui, e il progressivo annichilimento di lei, che se all’inizio è disposta a spiegare, giustificare, “parlare”, via via è sempre più affranta e rassegnata (“dimmi cosa devo dire che lo dico, dimmi cosa devo pensare che lo penso, amore…“) si irradia dalle plastiche posture dei due attori, lui sempre più nervoso, lei sempre più ingobbita e coperta da un grosso cardigan, quasi a proteggersi, mentre la tensione raggiunge il suo acme aspettando un gesto di violenza fisica che alla fine, puntuale, arriva, anche se non è lo schiaffo lo snodo cruciale del racconto situato nell’atmosfera da prigionia di coppia di un interno casalingo. Lo è invece il malessere auto-distruttivo e autoreferenziale di lui, con la complicità della compagna che non riesce a sottrarsi a quel fatale abbraccio (“tanto poi facciamo l’amore e passa tutto”), nonostante l’attesa spasmodica, da parte dello spettatore, di una sua presa di coscienza che porti alla ribellione. Un malessere che esplode nella struggente scena finale.

La messa in scena pomeridiana è stata accompagnata da commenti e sussurri irrituali per il pubblico solitamente composto del Teatro del Grillo, non si sa se per la complicità di un piccolo problema tecnico ai microfoni oppure – come qualche acuta e storica spettatrice ha osservato nel foyer – perché qualcuno possa essersi riconosciuto nel dramma scenico o possa aver fatto improvvisa autoanalisi su di sé o su persone vicine; oppure ancora per la pregevole peculiarità di una messa in scena che costringe lo spettatore a subire gli stessi estenuanti interrogatori della donna, inchiodato come lei alla sedia, a subire domande le cui risposte conosce già.  Al di là del dato, tecnico o psicologico che sia, un testo molto coraggioso, una recitazione accurata senza concessioni agli effetti teatrali ma tutta puntata sulla descrizione analitica del rapporto perverso tra i due, che lascia più di un segno nella memoria e nella riflessione sullo stato dei rapporti di coppia e sul sottilissimo confine tra premure e controllo, ossessione e violenza, “amore” e volontà di annullamento della personalità dell’altro. Da vedere.

Teresa Pittelli

1 COMMENT

  1. Gentile Signora Pittelli,
    bel pezzo!
    Efficace, contemporaneo, a tratti freddo.
    E’ stata brava: lasciate perdere le sdolcinature e l’amarcord, si è immersa nel vero dell’oggi e ha raccontato, recensendo un testo teatrale (questo sì, “testo” e “teatro”: non altri!).
    Della sua narrazione ci ha toccato l’amarezza secca dell’osservatrice.
    E la citazione di poche frasi, le più significative (secondo noi), con l’accenno a quel cardigan, sono state un colore di più.
    Ha trasmesso la banalità del sopruso, proprio per questo insidioso e all’esordio sempre invisibile, e la normalità del dolore che avvolge fatalmente chi crede di poterlo controllare.
    Anche noi eravamo a teatro e con piacere apprezziamo la sua recensione.
    E’ questo il giornalismo che ci piace: intelligente, contemporaneo, dentro.
    Senza indulgere a null’altro che non sia il secco resoconto dei fatti (fatalmente nebulizzato dal proprio umano punto di vista) e, appunto, sempre, e comunque onestamente, l’oggi.
    Cordiali saluti.
    Soverato Perché 2
    http://soveratoperche2.blogspot.it/

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