Una giornata bella sabato scorso all’Istituto tecnico economico Calabretta di Soverato, per il premio “Giancarlo Siani” organizzato dall’osservatorio Falcone-Borsellino presieduto da Carlo Mellea, che ha però minacciato di lasciare a breve l’incarico a furia di isolamento e mancanza di fondi. Bella perché l’uditorio non era composto da presenze di circostanza, club filantropici e riflettori tv ma era essenzialmente fatto da ragazzi, insolitamente attenti e composti per tre ore di fila (“solitamente” ha precisato con orgoglio il dirigente Gilio De Masi che ha introdotto i lavori). Prima della premiazione dei giornalisti individuati dall’osservatorio come impegnati sul campo a raccontare la mafia o fare semplicemente il loro lavoro d’inchiesta e verità, a presentare i due libri-focus del giorno sono stati Fabio Guarna, giornalista pubblicista e docente dell’Ite, che ha illustrato Io non taccio, scritto da otto giornalisti coraggiosi che hanno pagato e pagano per il loro lavoro, quasi tutti presenti in sala, e Francesco Raspa, docente Ite di lettere che ha appassionato i ragazzi raccontando Noi gli uomini di Falcone scritto dal generale Angiolo Pellegrini, comandante dell’anticrimine di Palermo negli anni delle stragi, anche lui sabato a Soverato per raccontare quegli anni agli studenti, lodando l’iniziativa e la determinazione di Mellea nel portare avanti l’osservatorio, insieme alla coordinatrice Giulia Anna Pucci che ha dedicato il suo intervento all’importanza dell’impegno civile.
A consegnare il premio alla memoria del giornalista ucciso nel 1985 a 26 anni dalla camorra per le sue inchieste e rivelazioni sul clan Nuvoletta lo stesso Mellea insieme a Nico Pirozzi, della casa editrice CentoAutori per i cui tipi è uscito il libro Io non taccio. Storie esemplari di caparbietà e coraggio nel denunciare la realtà circostante senza chiudere gli occhi, tra querele, intimidazioni dalla politica e dalla “buona società” oltre che dai mafiosi intesi come criminali organizzati, dalla Padova di Roberta Polese alla Sicilia di Paolo Borrometi, dall’alto milanese infiltrato dalla ‘ndrangheta di Ester Castano al quartiere napoletano di Forcella di Arnaldo Capezzuto; premiati sempre per impegno a suon d’inchieste (purtroppo in molti casi seguite da intimidazioni), per la pattuglia calabrese, Pietro Comito de LaCNews, Manuela Iatì (Sky tg24), Francesco Ranieri di Gazzetta del Sud, Pasqualino Rettura e Michele Inserra de Il Quotidiano del sud, Alessia Candito del Corriere della Calabria, Filippo Veltri, editorialista del Quotidiano del Sud e già direttore Ansa, Arcangelo Badolati (Gazzetta del Sud).
Tutti premiati e contenti? Non proprio. Si è parlato di caduta degli dei dell'”antimafia”, basta pensare per tutti alla vicenda di Pino Maniaci, e della “necessità di superare la logica di premi e galloni a seconda delle intimidazioni ricevute (per tutti Alessia Candito e Pietro Comito)”, quasi ci fosse un’assuefazione, un battimano nell’esser minacciati e poi premiati che invece va rifiutata, in nome di un’antimafia che deve essere dovere e normalità per i cittadini innanzitutto (e qui il monito ai ragazzi a parlare, denunciare, studiare per il proprio futuro senza scorciatoie offerte dal parente, dall’amico politico o dal padrino), e tanto più per chi di mestiere vuole raccontare la realtà. E non è sfuggito a tutti il post su facebook di Peppe Baldessarro, storico corrispondente calabrese di Repubblica e direttore di Narcomafie, anche lui tra gli autori di Io non taccio e tra i premiati ma assente, post rilanciato ieri da Agostino Pantano, valoroso cronista del reggino che tra questi invece avrebbe potuto benissimo esserci (rischia otto anni di carcere per “ricettazione di notizia” per aver scritto dello scioglimento di un Comune per infiltrazioni mafiose ed è alle prese con altri procedimenti per altre inchieste con le quali ha toccato settori dell'”antimafia”).
“Stamattina avrei dovuto ritirare il Premio Siani a Soverato. Un riconoscimento importante per il quale ringrazio Carlo Mellea, presidente dell’Osservatorio Falcone, Borsellino, Sopelliti. Il Premio capita in un momento in cui i giornalisti italiani attraversano un momento complicato della storia di questo mestiere nel nostro Paese. Dopo i fatti di Maniaci, ma non solo quelli, penso sia necessario riflettere sul nostro lavoro. Si parla sempre più di noi come personaggi e sempre meno di quello che scriviamo e di come lo scriviamo. Stiamo diventando noi la notizia e questo non è un bene. Credo sia necessario tornare a percorrere la strada del rigore, dello studio, del pensiero, del servizio, della coerenza”, scrive Baldessarro. “E’ una via che qualcuno di noi ha smarrito, ma è quella la nostra strada, non può che essere quella anche se è la più faticosa. Sarebbe stato un onore per me esserci, sarei stato felice di incontrare colleghi con i quali ho condiviso tante fatiche in momenti molto difficili della nostra comune storia. Oggi però non ci sarò, sarò come sempre a lavoro. Abbraccio molti di loro, stimo molti di loro, faccio i complimenti a molti di loro. Buon premio, e buona riflessione”, conclude Baldessarro, che di intimidazioni e querele per aver raccontato la Calabria senza fare sconti a nessuno ne ha accumulate centinaia.
Una riflessione ieri portata avanti su fb con toni anche accesi da Pantano e Pietro Comito (che ha ritirato il premio per Baldessarro), due giovani colleghi accomunati non solo da impegno e inchieste, ma guai giudiziari che hanno portato Comito di recente a una condanna per diffamazione per un articolo scritto sull’operazione “Crimine”. A Pantano, che con gli accenti sagaci, liberi, pungenti e diretti che gli sono consoni ha giustamente messo in evidenza le contraddizioni della “premiologia” antimafia, una battaglia che porta avanti da tempi non sospetti, Comito ha ricordato che “abbiamo i frigoriferi spesso vuoti e le bollette scadute. E c’è chi tra noi, precario o disoccupato, sta pure peggio. Sono questi i principali nostri problemi. E invece rischiamo – non io, non tu, ma tutti – di metterli in secondo piano perché continuiamo a giudicarci, dividerci, azzuffarci. Mentre se ci va bene ci sparano, se ci va male tu ti fai qualche anno di carcere per aver scritto di un Comune che puzza di mafia fino alle tegole, io mi vedo pignorare un quinto dello stipendio per aver leso l’onorabilità di un pregiudicato”, scrive Comito. Punti di vista diversi, ma entrambi degni di considerazione visto che a scriverli è chi ha fatto inchieste, ha dato tutte le notizie e non solo alcune, crede ancora in un mestiere che più complicato al momento non si può, ma che per dirla con Peppe Baldessarro “è una scelta di vita, un lavoro tra i più intensi e affascinanti che esistano”.
Teresa Pittelli