Il giornalismo è una cosa diversa dallo sciacallaggio. Dovrebbe essere ovvio ma capita sempre più spesso di dover ripensare a questa differenza, forse complice l’accelerazione delle possibilità tecnologiche di riprendere e mostrare al mondo scene cruente, dolore vivo, sangue e relative visualizzazioni su facebook o impennate di audience. Ma se a tenere dritta la barra del timone dell’informazione è il rispetto per il dolore che sta vivendo la famiglia di Marco Gentile, ammazzato sabato sera ai giardini di S. Leonardo a Catanzaro, allora quella linea di demarcazione torna chiara e semplice.
Il fatto di non indulgere in una quantità di articoli e interviste sulla vicenda non significa che il caso non lo richieda, ma solo che bisognerebbe ponderarli alla luce del rispetto per Marco che è venuto a mancare e per una mamma che sta vivendo da tre giorni il lutto più terribile. E poi rispetto per la famiglia, gli amici e chi lo conosceva. Un’intervista sul dolore, su un lutto freschissimo, a persone sconvolte dalla perdita di un ragazzo di diciotto anni, può essere il “pezzo forte” del giorno ma ritengo non sia dignitosa per le persone coinvolte.
Nessun giornalista dovrebbe sostituirsi a un pubblico ministero o al giudice. Benvenga la cronaca giudiziaria e la riflessione pubblica sull’accaduto, ma sguazzare sul dolore e sulle parole dette nel momento estremo del dolore più grande, lanciando e riprendendo video choc – preceduti ovviamente da appetitose pubblicità – rappresenta secondo me un livello di non-giornalismo al quale è molto preferibile il silenzio. Ed è il silenzio stesso ora a urlare, ma solo e soltanto per Marco.
Victoria Asturi