* L’arrivo dell’anticiclone africano Flegetonte sull’Europa mediterranea, proprio mentre il popolo greco vota NO al referendum indetto da Tsipras sulle condizioni poste dai creditori istituzionali per un nuovo bailout (salvataggio, ndr), sembra quasi evocativo di un ingresso dell’area Euro nell’Ade più tenebrosa. Per scongiurarlo sembra necessaria un’accelerazione nel processo d’integrazione dell’Unione Monetaria. Nello specifico caso delle negoziazioni tra Grecia e i suoi creditori europei, quest’accelerazione deve prendere la forma di un’assunzione forte di responsabilità da entrambe le parti. Che la zona Euro non sia una “area valutaria ottimale” è noto fin dalla sua nascita. La scarsa mobilità del fattore lavoro (a fronte invece di un’elevata mobilità dei capitali) e la mancanza di meccanismi di condivisione del rischio e di una politica fiscale almeno parzialmente centralizzata sono fattori che rendono le asimmetrie strutturali potenzialmente molto costose quando si realizzano shock idiosincratici.
L’assunzione di responsabilità delle istituzioni europee deve allora richiamarsi a quei principi di solidarietà sui quali è basata l’idea stessa di Unione Europea, e costruire meccanismi di redistribuzione che consentano un’effettiva condivisione del rischio e la promozione delle condizioni che garantiscano la crescita di lungo termine di tutta l’area. A questi principi si è già ispirata, per la verità, la creazione di istituti come il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, prima, e il Meccanismo Europeo di Stabilità, poi (il cd fondo salva-stati), la cui solvibilità è in ultima analisi garantita dai contribuenti dei Paesi che adottano la moneta unica, in quote che rappresentano il peso relativo dei singoli Paesi nell’area. Qualunque meccanismo di condivisione del rischio attraverso la redistribuzione è però sostenibile nel lungo termine solo se affiancato dalla condivisione anche di principi fiscali che garantiscano, nel medio periodo, la sostenibilità della finanza pubblica dei singoli Paesi membri.
In assenza di questa condivisione, meccanismi che nascono per assorbire shock idiosincratici temporanei si trasformano in strumenti di sussidio permanente ai Paesi “indisciplinati”, a danno di quelli “disciplinati”. Non deve sorprendere, quindi, che questo sia un equilibrio difficilmente sostenibile nel lungo periodo. In questa dimensione giace l’ineludibile responsabilità che il governo greco deve assumersi. E’ probabilmente inevitabile che i creditori accettino una (ulteriore) ristrutturazione del debito greco. E’ tuttavia altrettanto inevitabile che non la accettino prima di un impegno credibile di Atene ad assicurare – attraverso opportune riforme del proprio sistema fiscale e produttivo – che almeno le risorse che saranno trasferite d’ora in poi siano garantite da una crescita di medio termine che non sia alimentata da debito a bassissimo costo, come invece successo negli anni successivi all’adozione dell’euro. Il ruolo della BCE in questo momento è senz’altro chiave, ma non sembra, da solo, risolutivo. Le parole del premier greco Tsipras nel suo discorso all’esito del referendum, e quel richiamo alla “condizione umana e sociale” del Paese che la BCE dovrebbe tener ben presente, sembrerebbero suggerire che lo sia. E’ importante, però, avere chiaro quali sono i confini entro i quali Mario Draghi può lecitamente muoversi.
L’Emergency Liquidity Assistance (ELA), che sta tenendo in vita le banche greche ormai da molte settimane nasce ed è regolato come strumento d’intervento emergenziale in casi di temporanea illiquidità d’istituzioni finanziarie altrimenti solvibili, cioè in grado di offrire adeguate garanzie pur nel periodo di carenza di liquidità. Se però l’attivo di bilancio si compone prevalentemente di obbligazioni emesse dal governo greco, il quale, dalla mezzanotte del 30 giugno, è tecnicamente in default, si capisce che la solvibilità che garantisce l’accesso all’ELA è quantomeno incerta. Ignorare questa valutazione tecnico-finanziaria renderebbe gli interventi della BCE intrinsecamente politici. E li porrebbe al difuori del perimetro che il suo mandato e le sue procedure operative le impongono, a garanzia di tutta l’area e della propria indipendenza. Su queste valutazioni si basa la recente decisione di non alzare il tetto di ELA dagli 89 miliardi attuali e di richiedere collaterale in eccesso.
Il d-day sembra allora essere il 20 luglio prossimo, quando arriveranno a scadenza obbligazioni per quasi 3.5 miliardi, che Atene deve rimborsare alla stessa BCE: in caso d’inadempienza, infatti, non sembra verosimile che Francoforte possa evitare di sospendere l’ELA, aprendo di fatto le porte dell’Ade. Almeno per la Grecia.
*Salvatore Nisticò, PhD
Professore Associato di Economia – “Sapienza” Università di Roma