Global fashion, un titolo che raccoglie in due parole i linguaggi della moda attuale. Una visione antropologica sull’identità delle persone, popoli e tradizioni legati all’abbigliamento quotidiano sempre più ambiguo e diversificato. Ieri sera si è svolto il sesto incontro della rassegna letteraria D’estate Emozioni, organizzata dal consigliere con delega al turismo e alla cultura, Emanuele Amoruso. A moderare l’incontro è stato Pietro Melia che dopo il suo intervento introduttivo ha presentato l’autrice, Maria Catricalà. Lei e Michele Rak hanno esplorato i confini della ricerca dei codici linguistici sulla moda e li hanno interpretati nel libro Global Fashion. A partire dalle tradizioni tessili che caratterizzano la storia della moda del nostro territorio e che, tra l’altro, sono parte importante del pil del Paese. La moda come concetto effimero, che ha bisogno di distruggersi per poter rinascere continuamente perché “se non ci fosse questo processo la moda finirebbe e finirebbe anche il sistema economico”, assicura Catricalà.
L’inarrestabile processo di globalizzazione dell’ultimo secolo ha generato la moda dello street style, cioè, la possibilità che danno la strada, i movimenti giovanili e i social network di lanciare tendenze e avere un certo seguito. Le varie forme di globalizzazione ci permettono di ricevere molti input sulle tendenze e gli indumenti che arrivano da tutto il mondo e di trovare in tempo reale un consenso senza frontiere. “La dimensione dello spazio-moda si è trasformata notevolmente in questi ultimi anni, e il binomio spazio-moda è sempre stato interessante (spazio sociale-spazio antropologico-spazio culturale-spazio economico)”, sostiene l’autrice.
La delocalizzazione che hanno intrapreso tante maison del made in Italy ha abbattuto alcuni costi ma allo stesso tempo ha valorizzato alcune tradizioni e saperi sartoriali tipici perché alcune competenze non sono trasferibili facilmente. “Il problema che ci poniamo nel mondo accademico – osserva Catricalà – è cercare di capire perché questi saperi non sono così facilmente replicabili”. Questo sapere “è legato al paesaggio, al fatto che gli italiani sono esposti da sempre a grandi capolavori della pittura, della scultura, dell’architettura, all’equilibrio del paesaggio che fa si che anche i colori che utilizziamo nel vestire abbiano dentro, in qualche modo, la nostra tradizione rinascimentale, pittorica, insomma tutto quello che è nella nostra tradizione artistica – spiega l’autrice – e che è stato trasmesso e sedimentato nei secoli”.
Interessante la scoperta dei significati nella “psicologia dell’abbigliamento”. “Quando ti vesti o ti spogli fai emergere quel desiderio di essere unico e irripetibile, di adeguarti alla maggioranza o di mascherare la realtà. Con i vestiti possiamo omologarci o esprimerci”, sottolinea la professoressa. Ma se in passato l’abbigliamento e i suoi colori erano collegati alle competenze, all’appartenenza politica o religiosa, alle consuetudini dei territori, ora, con la globalizzazione-occidentalizzazione molte culture stanno perdendo identità per ridefinire il valore funzionale e simbolico della moda. “Viviamo in una società che isola il diverso e il bisogno di essere accettati ci sta facendo perdere la nostra identità – prosegue Catricalà – con i nostri saperi e valori simbolici. Bisogna fare in modo che la moda diventi global però in qualche modo che porti con sé un etno-sapere, altrimenti rischiamo di perdere le tradizioni e di non arrivare alle future generazioni”.
Innovazione e mutamento sono inevitabili nella moda. Le grandi maison tendono sempre di più alla rincorsa della wearable technology, cioè, l’abbigliamento che include una particolare capacità comunicativa: il twitter dress, le scarpe lechal che ti dicono dove andare, o la hug shirt che riproduce un abbraccio; insomma, l’abito che comunica con chi lo indossa. Questa è l’avanguardia, il futuro della moda, il tessuto innovativo e tecnologico, che però dovrebbe essere affiancato a quello che è il tessuto locale tradizionale. Riuscire a creare prodotti che siano legati a questa nuova frontiera della wearable technology e combinare tecniche antiche con la tecnologia “garantirà una continuità identitaria e conservare una storia, un passato, un rapporto con la natura, con le materie prime di una determinata terra: questo farà sì che pure utilizzando una hug shirt si possa mantenere una diversità come è successo con le lingue, che hanno sempre subito dei processi di unificazione portandosi dietro una propria storia, una propria diversità”.
Senza il valore della molteplicità si rischia che il genere umano si estingua e che ci siano meno possibilità di sopravvivenza. Dobbiamo prendere l’eccellenza nella diversità di ogni cultura ed essere creativi e innovativi per mantenere viva la possibilità di inventare indumenti unici e diversi. Quello che ci salverà sarà la capacità dei popoli di “creare qualcosa che prima non esisteva – conclude Catricalà – piuttosto che solo la tecnologia”.
Isabelle Nieto (foto Oreste Montebello)
Grazie a Isabelle e a Oreste. Vi invierò il libro. Intanto, un saluto da una Roma molto piovosa, con un po’ di nostalgia per lo splendido mare di Soverato
Maria Catricalà
Grazie Maria!