C’è Rosalba, quindici anni di esperienza come responsabile del team di vendite in un negozio molto noto del soveratese, alla quale dopo che aver avuto una bimba è stato prima negato il part-time, poi fatto capire che “tutte” queste esigenze di tempo e allattamento avrebbero consigliato di restarsene a casa. Definitivamente. “Ora faccio la mamma”, dice rassegnata seguendo dappertutto la sua bambina che al parco non sta ferma un minuto. E c’è Manuela, manager di un’importante agenzia di lavoro, che dopo aver osato fare un secondo figlio a poca distanza dal primo in azienda ha subito un bel po’ di trattamenti che descrive come mortificanti. Fino a decidere da sola di licenziarsi. E poi c’è Pamela, la giovane catanzarese che ha appena vinto una causa contro lo store Mediaworld del parco delle Fontane di Catanzaro, che secondo i giudici della Corte d’Appello è stata licenziata proprio perché aveva tentato di far valere i suoi diritti alle ore di allattamento, una volta rientrata a lavoro dopo essere diventata mamma. Ci sono i padri lavoratori autonomi che non hanno la possibilità di restare a casa qualche giorno dopo aver avuto un bambino. E quelli dipendenti che ancora stentano a farlo, per motivi economici e culturali che in Italia la fanno spesso da padrone, nonostante una legislazione che garantisce congedi parentali, diritto a maternità obbligatoria e facoltativa per lavoratrici subordinate e in parte anche per le collaboratrici. Ma poi la realtà, spesso, è ben diversa.
Secondo L’Espresso che pochi mesi fa ha condotto un’inchiesta i dati parlano chiaro: negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30%. Le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing dicono che solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare. E sempre secondo l’Osservatorio, 4 madri su 10 vengono costrette a dare le dimissioni per effetto di “mobbing post partum”. Con un’incidenza superiore nelle regioni del Sud (21%), del Nord Ovest (20%) e del Nord Est (18%). Che significato allora assume il tema scelto quest’anno in Italia per la SAM, la settimana mondiale dell’allattamento, dal titolo “Allattamento e lavoro: mettiamoci al lavoro?“.
Io posso portare a riguardo la mia testimonianza. Che tra luoghi pubblici mum&baby-friendly e altre situazioni neutre contempla anche un’esperienza che io definirei di mobbing, in un posto di lavoro dove al rientro dopo un anno di maternità ho trovato tutto cambiato intorno a me: un’altra persona a svolgere il ruolo per il quale ero stata assunta e alla quale mi è stato detto da quel momento di dover rendere conto; un cambio di ufficio, di stanza e di modalità di svolgimento del lavoro; il messaggio continuo, più o meno esplicito, secondo il quale quanto fatto finora, sempre valutato positivamente dai vertici e dai referenti interni ed esterni all’azienda, non andasse più bene; fino a una riunione nella quale mi è stato detto chiaramente che un buon professionista nella mia posizione dovesse essere disponibile “24 ore su 24”. Richiesta poco conciliabile con il periodo che stavo vivendo, cioè il rientro dalla maternità con i permessi orari per allattare.
E pur consapevole dei miei diritti e addirittura promotrice di questi temi attraverso la mia professione, non me la sono sentita di denunciare nulla. Il mobbing, soprattutto se sottile e psicologico, insomma “ben fatto”, non è facile da provare. E spesso si preferisce trovare altre soluzioni rispetto a un lungo contenzioso. La stessa inchiesta dell’Espresso racconta infatti che nonostante i numeri giganteschi del fenomeno, le denunce sono poche. E se è vero che sindacati e associazioni di categoria supportano il percorso giudiziario delle donne che vogliono intraprenderlo, e che è sacrosanto, occorre pure un salto culturale che tenga conto delle buone pratiche che sono la norma in molti paesi europei. Ma che non mancano anche in Italia. Qui in alcune aziende più sensibili e all’avanguardia si sperimentano da qualche anno orari flessibili per genitori, ad esempio per visite mediche dei bambini o per assistere a saggi e recite, banca ore, telelavoro, nido aziendale. A fare la differenza con l’Europa, spesso, più che la durata del congedo (anche se in paesi come Francia e Germania può durare fino a tre anni) è una cultura family friendly, attenta a sostenere il rientro a lavoro dopo la maternità e al coinvolgimento dei padri, che qui quasi sempre manca del tutto. E l’occasione degli ultimi giorni della Sam 2015, la settimana mondiale dell’allattamento, quest’anno dedicata al tema allattamento e lavoro è un’occasione per ribadirlo…mettiamoci a lavoro!
Teresa Pittelli