Come si partorisce oggi? Gli ospedali sono adeguati ai bisogni delle donne? La mia esperienza a Catanzaro e dintorni…

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Oggi scrivo di un argomento delicato, legato a una delle esperienze più forti e magnifiche che una donna possa fare: il parto. Vorrei parlare di come ci troviamo a mettere al mondo un figlio. In quale contesto. In quale cultura. Col sostegno di chi. In quali ospedali o strutture alternative. Del resto, pochi giorni dopo il mio terzo cesareo, grata di stringere tra le braccia la mia piccola Clelia, ma ancora “dentro” il bello e il brutto dell’esperienza ospedaliera, i miei pensieri girano tutti intorno a questo.

Sarà che la terza volta l’ho vissuta, riflettuta e preparata in maniera più consapevole, ma ho compiuto un percorso che mi ha portata a desiderare una nascita più fisiologica, naturale e umana, a misura di mamma e bimbo, anzi di famiglia, nonostante il cesareo e nonostante non mi sembrino queste le indicazioni alle quali si ispirano in media gli ospedali, soprattutto i più grandi e soprattutto al Sud.

I primi due cesarei “subiti” in un grande ospedale di Catanzaro, felicità e meravigliose emozioni a parte, mi hanno lasciato dentro un disagio, una ferita interiore oltre a quella sulla pancia, che però non ero riuscita bene a inquadrare e decodificare. Solo col tempo, con la lettura, con l’ascolto di me stessa e con il fondamentale supporto di meravigliosi gruppi di donne-mamme come quello di Noi vogliamo un vbac (parto naturale dopo cesareo) su Facebook, o Innecesareo, onlus per la prevenzione dei cesarei ingiustificati (su Facebook e su www.innecesareo.it), ci ho capito un po’ di più.

Ho capito che la nascita è un momento di enorme potenza per la donna che mette al mondo un’altra creatura, e che la nascita migliore possibile, per madre e bimbo, dovrebbe essere meno disturbata possibile, se la gravidanza è fisiologica e non ci sono motivi di salute tali da giustificare metodi e pratiche ospedaliere spesso invadenti, qualche volta inutili, non sempre rispettose dell’evento-nascita.

OSPEDALI E PROTOCOLLI OBSOLETI. Spesso prevalgono ancora rigidi protocolli che, so solo ora, almeno in parte non sono più in uso in moltissimi ospedali italiani e in quasi nessun ospedale nord-europeo. Clistere. Zelante rasatura. Trattamento sbrigativo. Quasi un’opera di spersonalizzazione e mortificazione della grande potenza che esprime una donna che sta per dare alla luce un bambino.  E poi separazione immediata e ingiustificata anche di molte ore della madre dal figlio, che potrebbe mettere a rischio l’allattamento: le prime due ore dopo il parto, infatti, sono quelle fondamentali per favorire l’allattamento e l’attaccamento mamma-bambino, entrambi pieni di endorfine e desiderio di stare insieme, conoscersi, compensare lo strappo di una nascita così violenta. Tutte considerazioni che in un grande ospedale non trovano sempre ascolto.

Per non parlare dell’anacronistica rigidità sulla presenza del papà, relegato a un qualsiasi visitatore nelle pochissime ore di visita quotidiane, le stesse nelle quali poi si lascia spesso entrare in camera letteralmente chiunque, ritrovandosi anche in una cinquantina di persone, quando le stanze sono a sei letti. Qualche sgarberia del personale (non tutti per fortuna), forse esausto, forse precario, non so (“Ma se riesci a reggerti in piedi perché devo girarti io la manovella del letto?”, mi son sentita aggredire da una scocciatissima infermiera, mentre attaccata al palo della flebo cercavo di fare i primi passi e avevo osato chiederle di sollevarmi lo schienale). E un pediatra che davanti a tutte ha chiesto all’ostetrica di strizzarmi il seno “per vedere se ha latte, che se no dobbiamo dare subito l’aggiunta”). Nessuna privacy. Nessuna intimità. Altre chicche: “Mettetevi a letto e copritevi i piedi perché sta per passare il primario che non li vuole vedere (!)”. E tutte a scappare sotto coperta. Come al militare.

MALEDETTI TAGLI… Va sottolineato che personale medico e paramedico sono spesso sottoposti alle difficoltà dovute al cosiddetto “piano di rientro”, un insieme di prescrizioni dirette soprattutto alle regioni con maggiore deficit nel bilancio sanitario, come appunto la Calabria, che impongono tagli per colpire gli sprechi, ma che spesso finiscono per colpire il servizio. Il piano ha ridimensionato o minaccia di ridimensionare anche strutture importanti ed efficienti, presidio territoriale fondamentale per filtrare l’enorme afflusso di utenti che altrimenti “affogherebbe” (in parte è già successo) i tre ospedali delle città capoluogo (dopo l’incontro al tavolo Massicci di venerdì scorso il governo regionale ha diffuso dati che parlano di svolta positiva per la sanità calabrese, con lo sblocco del turn over e la possibilità di assumere 380 unità di settorendr. Resta da vedere come questo influirà sulle singole strutture ospedaliere “a rischio”).

L’ATTEGGIAMENTO DEI GINECOLOGI OSPEDALIERI E’ SEMPRE QUELLO GIUSTO? Senza voler generalizzare, anche l’atteggiamento di alcuni ginecologi ospedalieri rappresenta un tasto dolente. Non di rado ho avuto la sensazione di essere solo un numero pagante per loro. Ad esempio un pezzo da ’90 al quale mi sono a lungo affidata, non mi ha voluta visitare nel suo studio privato, dopo aver fatto il viaggio da Soverato a Catanzaro, perché avevamo fatto un quarto d’ora di ritardo (!) e lui aveva “un impegno”. Non quindi un’urgenza in ospedale o qualche problema privato, ma un semplice impegno. “Signora ormai è tardi, magari mi chiama la prossima settimana, va bene?”. Come se io fossi arrivata lì, non so, per bere un caffè o comprare un tappeto. E non con gli interrogativi di una mamma alla vigilia della scelta se fare o meno l’amniocentesi (non l’ho fatta).

Forse delegare ai medici a occhi chiusi ogni aspetto che riguarda il nostro parto non è esattamente la strada giusta. E non mi lamento delle tariffe salate che si sborsano per essere visitate nei loro studi privati. Ma del fatto che, pur pagando queste somme, non sono riuscita in genere a stabilire un dialogo vero al di fuori del rapporto gerarchico-direttivo medico-paziente. A ottenere autentico rispetto e un po’ di partecipazione per l’unicità della mia esperienza e della vita che porto in grembo. Abbandonato dunque il “pezzo da ’90”, siamo arrivati nello studio di un altro ginecologo che lavora sempre nel grande ospedale catanzarese ma nell’altra ala, uno che va per la maggiore. Ricevendoci ci ha subito sciorinato le sue eccezionali competenze di ecografista. Poi la battuta di una certa grossolanità: “La morfologica ve la faccio pagare 120, ma a Roma per una morfo come la mia vi farebbero spendere 250 euro!”, salvo poi concludere che però non era riuscito a vedere alcune cosette della bimba, e chiederci di tornare per un piccolo supplemento di esame ecografico dopo una settimana, chiedendoci candidamente altre 120 euro (dunque tariffa “romana”!!!). Ricordo di aver deciso di abbandonare anche lui dopo la sua mitica frase: “Per me la partoriente ideale è quella muta“. Ah ecco, perfetto: il modello patriarcale della brava partoriente che sta zitta, non esprime i suoi bisogni e il suo istinto, non intralcia il lavoro degli operatori in modo da arrivare nel più breve tempo possibile a svuotare il “contenitore” e ottenere il “prodotto biologico”, in quella che oltre che un’estrema medicalizzazione rischia ormai di essere un’industrializzazione del parto.

QUESTA VOLTA E’ ANDATA MOLTO MEGLIO. Così, mi sono fatta coraggio e ho cercato un’alternativa. Ho cambiato ginecologo. Ho cambiato ospedale. Ne ho scelto uno più piccolo, il Giovanni Paolo II di Lamezia Terme, per seguire il ginecologo di fiducia che di questa u.o. è il direttore, ma avrei scelto volentieri anche l’ospedale di Soverato, che sotto l’aspetto del rispetto del rapporto mamma-papà-bambino, dell’umanità e flessibilità dei protocolli sembra in ottimo stato, almeno secondo i racconti di chi ci ha partorito e l’osservazione diretta del clima in reparto.

Un nuovo percorso che, pur senza aver avuto il coraggio di pretendere un parto naturale (cosa fattibilissima dopo due cesarei, ma che a queste latitudini mi pare si stenti ancora a proporre, mentre da indicazioni Oms andrebbe offerto di regola), alla fine mi ha riconciliato un po’ con la nascita traumatica che per me è il cesareo, il far venire al mondo i miei figli con una brusca estrazione chirurgica e senza il naturale viaggio del travaglio, sotto le luci forti e i volti coperti da mascherine della sala operatoria, senza il papà né nessuna persona di riferimento ma consolata ben che vada dall’anestesista se ne ha la sensibilità (devo dire che in tutti e tre i parti ho trovato anestesiste/i empatici e di sostegno, oltre che bravi).

Questa volta ho redatto insieme a mio marito un “piano del parto”, una carta che contiene tutte le aspettative dei genitori sull’esperienza che vorrebbero vivere in quella struttura ospedaliera in qualità di utenti. Un foglio con le nostre richieste e i nostri desideri, e con l’elenco dei trattamenti medici per me e la bimba rispetto ai quali chiedevamo di essere preventivamente informati, o che rifiutavamo (per esempio biberon di soluzioni glucosate o di latte artificiale senza il nostro consenso). Un piano scritto che rassicura la partoriente ma anche la stessa struttura, che può evitare polemiche, disagi o contenziosi successivi, e che viene ormai adottato di prassi in tantissimi ospedali del Centronord. Sorprendentemente, nonostante credo non capitino loro quasi mai richieste simili, il primario e la caposala del reparto maternità hanno preso in consegna il mio piano scritto. E per quanto possibile lo hanno rispettato. Per la prima volta ho avuto il privilegio di vedere mia figlia nascere, senza telino davanti, di accoglierla tra le mie braccia ancora tutta sporca di sangue e vernice caseosa e tenerla così, pelle a pelle, per un po’. Per la prima volta mio marito ha potuto vedere e accarezzare la bimba restando insieme a lei all’isola neonatale per tutto il tempo dei primi controlli e del bagnetto (fugacemente questo era successo anche al Pugliese con il secondo bimbo, ma solo grazie alla casuale presenza di un grande e storico pediatra “in Gamba”). Per la prima volta ho potuto confrontarmi e interloquire con medici e personale disponibili a rispondere a dubbi e domande. E ho allattato Clelia a due ore esatte dal parto. Certo, non è mancato qualche momento di tensione con una puericultrice per somministrazione di biberon con glucosata e invio in camera di latte artificiale senza consenso informato e senza giustificazione. E continuo a ritenere eccessiva la medicalizzazione del bimbo e i tanti prelievi ai quali è stata sottoposta Clelia. In ogni caso questa volta è andata un po’ meglioE se tornassi indietro, se fossi una futura mamma all’inizio del cammino, vorrei arrivare in maniera ancora più consapevole a questo evento così importante per la mia vita, per quella del nuovo nato e della nuova famiglia. E magari, perché no, farmi seguire da un’ostetrica. Una donna come me. Che ha le giuste competenze per mettere me e il mio bambino a nostro agio con questo straordinario viaggio dentro me stessa e dentro la vita. Da non sprecare a causa della nostra soggezione all’autorità medica, o dei protocolli rigidi e poco aggiornati degli ospedali o della nostra mancanza di informazione sui nostri diritti e sulle nostre prerogative. Ma da vivere fino in fondo, nel sostegno psico-emotivo e non solo tecnico-medico, nella gioia e nell’armonia, nella crescita e nella pienezza che meritiamo per noi e i nostri bimbi.

E voi? Com’è stata la vostra esperienza nei “nostri” ospedali e nei mesi della gravidanza? Commentate o raccontate qui sotto con facebook o scrivendo a teresapittelli.tp@gmail.comE’ gradita anche l’esperienza dei papà!

Bibliografia per chi vuol saperne di più:

Verena SchmidVenire al mondo e dare alla luce, Feltrinelli. “In una modernità dove predomina il parto chirurgico e farmacologico si sta perdendo il sapere della nascita, del suo percorso emozionale e iniziatico, della sua funzione importante per gli effetti duraturi su corpo e psiche della persona che nasce e per la salute psicofisica della donna…”.

Alice OxmanLager Maternità, Bompiani.“Venti storie di maternità in ospedali e cliniche, documentazione dell’obbligo morale introiettato di far figli, e dell’immorale cinismo della stragrande maggioranza di medici, ostetriche e infermiere che circonda l’eroismo di madri sprovvedute, considerate malate e seccatrici d’infima categoria”.

Organizzazione Mondiale della Sanità-UnicefI dieci passi. I “10 passi” sono dieci regole che nel 1992 l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’UNICEF hanno definito per indirizzare gli ospedali verso un concreto sostegno dell’allattamento al seno. Secondo la regola n.4, l’ospedale deve aiutare le madri a iniziare l’allattamento al seno entro mezz’ora dal parto.

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