* Oggi si è finalmente conclusa la vicenda “Baia di Soverato” che mi vedeva coinvolto assieme ai colleghi Contini, Tenuta, Riverso e Mirarchi, con la nostra assoluzione con formula piena e terminativa. Le contestazioni a noi rivolte riguardavano il procedimento amministrativo di approvazione del progetto di “Recupero ambientale e salvaguardia del litorale costiero del Comune di Soverato”, inerente la realizzazione di un sistema di scogliere frangiflutti in massi naturali, finalizzate a contrastare l’erosione del tratto di costa di pertinenza del Comune di Soverato. A dare avvio all’azione penale è stata una segnalazione dell’associazione “Gruppo Archeologico Paolo Orsi”, nella persona della signora Angela Maida, indirizzata al Nucleo Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale di Cosenza, su presunte irregolarità concernenti l’intervento in questione, tra cui la mancata acquisizione del parere dell’Ente Parco Marino Baia di Soverato, nel cui perimetro ricadevano alcune delle opere da eseguire.
Tuttavia le suddette irregolarità non hanno trovato alcun riscontro negli accertamenti svolti, anche con l’acquisizione della documentazione tecnica e amministrativa (per la ricostruzione completa dell’iter amministrativo vedi allegato in calce all’articolo, ndr). Piuttosto da questi si evince che l’ufficio tecnico del Comune di Soverato e i professionisti incaricati hanno svolto, per quanto di competenza, un’attività amministrativa e tecnica non soltanto lecita, ma capillare, minuziosa e trasparente, esclusivamente orientata al perseguimento di preminenti interessi pubblici. Come da conclusioni iniziali degli stessi carabinieri estensori dell’informativa di reato, che segnalavano nell’agosto 2010 un inter formalmente corretto per la realizzazione dell’intervento, limitandosi a evidenziare quale unico possibile elemento di dubbio la mancanza del parere dell’ente Parco Baia di Soverato, in tribunale è stato smontato anche questo unico elemento, accertando che la procedura ha ottenuto l’assenso specifico di tutti enti competenti, che hanno evidenziato non solo l’assenza di compromissione di aspetti ambientali, ma gli improcrastinabili effetti positivi delle opere a salvaguardia della costa di Soverato dal fenomeno dell’erosione. Nessun danno al territorio, quindi, ma al contrario un contributo alla sua salvaguardia, in perfetta continuità con la legge regionale n. 10/2003 che all’art. 1 si propone “il fine di garantire e promuovere la conservazione e la valorizzazione delle aree di particolare rilevanza naturalistica nonché il recupero e il restauro ambientale di quelle degradate”.
L’intera vicenda lascia un po’ di amaro in bocca anche perché si sarebbe potuta concludere già quando il geometra Mirarchi, dopo la denuncia, rilasciò alla rappresentante dell’associazione Paolo Orsi, Angela Maida, tutta la documentazione qui citata. Dal nostro rinvio a giudizio, invece, si è scatenato da più parti un attacco quasi fondamentalista al nostro operato. Un’argomentazione ricorrente, ripresa di recente anche qui, afferma ad esempio che le opere avrebbero “stravolto le correnti nutritizie circolanti nella baia, seppellendo di fatto le praterie di Cymodocea nodosa in cui il cavalluccio trova ospitalità e nutrimento”. Una simile affermazione, ancorché falsa perché non correttamente contestualizzata rispetto alla reale consistenza dell’intervento di difesa litoraneo in essere, mostra di ignorare i processi fisici alla base delle dinamiche che governano i fenomeni di trasporto solido litoraneo e la conseguente risposta geomorfologica della “spiaggia attiva”, così come i fenomeni di idrodinamismo propri del biotopo marino dell’area in questione.
La messa in relazione delle opere di ingegneria civile con lo stravolgimento delle correnti nutritizie a discapito dell’ecosistema marino e in primis dell’Ippocampo potrebbe far pensare, soprattutto per chi non ha avuto modo di vedere in concreto le opere realizzate, all’ennesima cementificazione del litorale. In realtà il presunto “ecomostro” altro non è che una scogliera di massi naturali del tutto simili, per forma e natura petrografica, alle formazioni rocciose già preesistenti in questo tratto di litorale. Anche senza entrare nel merito su temi propri della biologia marina inerenti l’importanza delle “sostanze nutritive” non solo in termini quantitativi, ma soprattutto qualitativi, per il delicato equilibrio dell’ecosistema marino, questa impostazione lascia pensare che forse non si abbiano chiari i principi di base sui processi biochimici e fisici che permettono il rimescolamento dell’ossigeno e delle sostanze nutritive nell’ambiente marino, e quindi i presupposti che condizionano l’attecchimento e stazionamento della Cymodocea nei fondali del Parco Marino. Assodato che la Cymodocea e quindi il cavalluccio prediligano frequentare zone di mare in qualche modo ridossate dagli stati di mare più frequenti e intensi (come nel nostro caso), gli stessi proliferano in un biotopo che deve collocarsi oltre la zona dei frangenti (nel nostro caso maggiore di -7 mt di profondità) perché solo in questo modo non rischiano di essere eradicati e spiaggiati dalle correnti di scirocco e levante che spesso si abbattono sul litorale, è chiaro che le opere da noi progettate non possano avere avuto alcuna influenza nell’asserita scomparsa della Cymodocea e del cavalluccio, visto che hanno un radicamento massimo di -2,50 metri e comunque ricadono in una conformazione geomorfologica storicamente contraddistinta da formazioni rocciose nella porzione di mare più prossima alla spiaggia emersa.
Le cause sono da attribuire piuttosto alle cattive condizioni meteomarine di questi ultimi anni, come abbiamo avuto modo di documentare nelle fasi di progettazione ed esecuzione acquisendo e analizzando le registrazioni dell’ondametro direzionale posto al largo di Crotone dal 2009 al 2010. Dal grafico a desta si evince che dal 04.01.2010 al 28.02.2010 si sono registrate decine di stati di mare (mediamente 1 ogni 7 giorni) con altezza significativa al colmo superiore a 2 metri e di questi quasi il 50% ha superato la soglia di 3 metri e altezze d’onda massime superiori ai 9 metri. Il tutto, associato al poderoso trasporto solido dell’Ancinale, ha portato nella baia dell’Ippocampo, nell’arco di qualche mese, una quantità notevole di sedimenti la cui frazione pelitica (limi e argille) si è distribuita e depositata sui fondali maggiori, probabilmente in quantità e per qualità tali che poter sommergere e compromettere lo stato di conservazione delle praterie di Cymodocea nodosa comunque già presenti in frazioni sparse.
Le rivendicazioni e accuse purtroppo concretizzatesi nell’esposto da parte dell’Associazione Paolo Orsi che di fatto mi ha costretto a vivere una spiacevole esperienza giudiziaria, anche se conclusa con l’assoluzione, sono anche alla base dei molteplici attacchi strumentali dell’associazione Salviamo la Scarpina, che accostando il progetto della Regione Calabria al nostro rinvio a giudizio, cercano di dimostrare che gli interventi progettati non abbiano alcuna utilità. Personalmente non riesco a essere così categorico nelle conclusioni a cui giungono. Mi sembra piuttosto una difesa strenua, magari anche per difendere rendite di posizione. Penso ad esempio a cosa successe quando si realizzò il lungomare dell’Ippocampo, che apriva alla cittadinanza un tratto di mare di fatto a uso esclusivo di pochi, e come alcuni residenti fossero contrari alla sua realizzazione.
Arrivare a dire, come è stato scritto in più occasioni, che se questo progetto dovesse essere realizzato devasterebbe uno dei tratti più belli del nostro litorale in assenza tra l’altro di una reale azione erosiva, significa disconoscere che negli anni ’50 La Scarpina si trovava in mezzo alla spiaggia e si raggiungeva a piedi, mentre la spiaggia a nord della stessa è arretrata negli ultimi 50 anni di oltre 50 metri. Le opere da attuare per la protezione di questo tratto del litorale devono essere finalizzate non solo a dare risposte concrete alle esigenze di salvaguardia e riqualificazione delle attività antropiche ivi presenti, con benefici di carattere socio-economico per tutta la comunità anche a lungo termine, ma assicurare il rispetto di principi progettuali a basso impatto, non solo per le finalità di tutela delle emergenze ambientali ma anche per quelle archeologiche. Sono dell’avviso che, nella zona archeologica delle macine, tramite la realizzazione di opere di ingegneria costiera opportunamente calibrate si potrebbe favorire il ripascimento della spiaggia, facendo avanzare la linea di riva di almeno 40 metri e sottraendo di conseguenza le emergenze archeologiche all’attacco diretto di onde, sovralzi del livello marino e correnti litoranee. In questo modo si consentirebbe di organizzare campagne di scavo “a terra” piuttosto che “a mare”, con tecniche di recupero più semplici e costi di restauro più contenuti, rendendo inoltre l’insediamento archeologico fruibile per tutti.
Confermando l’assoluta fiducia che abbiamo sempre riposto nell’organo giudicante, abbiamo dato mandato ai nostri legali di procedere legalmente nei confronti dell’Associazione “Gruppo archeologico Paolo Orsi” con una denuncia-querela e richiesta danni morali e materiali.
*ing. Maurizio Benvenuto