Ho iniziato a vedere La Direttrice solo per il rassicurante e insieme imperscrutabile viso di Sandra Oh. Anche perché la traduzione italiana non rende il titolo americano, The Chair, la sedia tanto prestigiosa quanto traballante di Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici alla Pembroke University, North Carolina, Usa.
La nuova Direttrice, prima donna, tra l’altro non bianca, ad assurgere all’incarico, deve vedersela con tagli dei bilanci all’osso, calo di iscritti, preoccupazione per il ranking, in cui Yale la fa da padrona e la Pembroke arranca, “dinosauri” che hanno fatto la storia degli american literary studies dell’ultimo ‘900 ma ora sono sulla lista dei docenti da silurare, benché non ci pensino proprio a mollare la sedia, appunto, pur frastornati dal nuovo corso in cui non si raccapezzano, tra valutazioni negative (quando non volgari e offensive) da parte degli studenti, colleghi (anzi colleghe) giovani che affrontano Melville discutendo di gender, sex and racism issues e facendo il pieno di studenti mentre loro parlano ad aule ormai deserte.
Per me che – non so ancora perché ma spero nel discorso sempreverde di Kavafis su Itaca – ho deciso di prendere una seconda laurea in lettere classiche, mio chiodo fisso da sempre pur aver fatto scelte diverse al momento di iscrivermi all’università la prima volta, e nel corso di una lunga carriera vicina alle lettere ma anche distante, dicevo, per me, vedere la serie, via via che procedevo negli episodi, è stato insieme emozione, riflessione, divertimento, amarezza e ironia. E speranza, sì speranza. Per quanto difficile sia, in un mondo che spinge verso competenze e conoscenze completamente diverse da quelle umanistiche, che taglia come se non ci fosse un domani i bilanci pubblici soprattutto sulla cultura, che vorrebbe fare di posti come la Pembroke (o l’Unical cubo 28!) affascinanti relitti del passato. Già… posti con le boiserie in legno massiccio, i ritratti dei Rettori incorniciati, quell’atmosfera letteraria così romantica e old fashioned, dove un romanzo o una poesia possono ancora cambiare una vita. O aiutare qualcuno a capirne (della vita) qualcosa di più.
Ho riso da matti alla scena in cui la meravigliosa Holland Taylor (Joan), decana del Dipartimento con una vita passata a studiare Chaucer sotto una lente femminista, su pressione della Direttrice legge finalmente le valutazioni da parte degli studenti sul suo corso e finisce per bruciarle con un accendino (mi ha fatto pensare a una mia altrettanto meravigliosa docente del primo anno, che ha scritto pagine importanti nella sua materia, a livello nazionale e internazionale); ho riflettuto sugli sforzi compiuti dalle donne per affermarsi nel campo accademico, pianto insieme alla Direttrice che non sa se ce la farà a conciliare tutto, compresi una bambina adottata da single che non si riconosce nella sua cultura coreana, né sembra entusiasta del suo lavoro, e un rapporto intenso e platonico con Bill, popolare professore di letteratura finito alla gogna per un gesto che ha violato l’ossessivo e imperante politically correct.
Come in tutte le serie tv che ci hanno colpito ed entusiasmato, arrivare all’ultimo episodio è stato insieme liberazione e lutto, e attesa della prossima stagione. Nel frattempo, in bocca al lupo agli studenti e ai docenti di lettere di tutto il mondo per questo nuovo anno scolastico o accademico. Siamo una forza del passato, è vero, ma di un passato più vivo che mai, se vogliamo costruire un futuro umano.
Teresa Pittelli