Lo splendore di un’età, quella gita in Grecia, quell’estate dei quattordici anni e poi quella dei diciotto. Lo splendore di sentimenti puri e assoluti. Lo splendore di una vita attraversata allontanandosi e ritrovandosi mille volte, dandosi la mano negli snodi, perdendosi in esistenze diverse e lontane per poi tornare a stringersi. Nell’eterna ricerca di un equilibrio per “non vergognarsi del viaggio”, come dice la dedica su un libro che un’amica londinese regala al protagonista, The dream of a ridiculous man di Dostoevskij. Lo splendore di Roma con “la stessa luce, quella eterna ricompensa a ogni malumore”. Di una passione implacabile, un affetto inesorabile, una tenerezza incancellabile dagli anni, dalle stagioni, dalle ragioni, dalle convenzioni, dalle distanze geografiche e culturali. E davvero accadde. E fu contro natura. E davvero vorrei sapere che cos’è la natura. Quell’insieme di alberi e stelle, di sussulti terrestri, di limpide acque, quel genio che ti abita, che ti porta a fronteggiare a mani nude le tue stesse mani e tutte le forze del mondo.
Il figlio del medico affermato e il figlio del portiere. E la vergogna. Di non essere stati – o almeno di non essersi sentiti – amati, da quella mamma architetto, infelice dentro casa e sempre impegnata fuori, nel caso di Guido, il protagonista, o da genitori rozzi e troppo affannati dal tirare la carretta quotidiana per capire cosa, di grave, succede al figlio adolescente, nel caso di Costantino. Vergogna di essere attratti l’uno dall’altro, di sentire una pulsione omosessuale, vergogna di amarsi, di non riuscire a dimenticarsi ma nemmeno ad avere il coraggio di stare insieme. Allora hai teso la mano per togliergli quella lacrima e ti sei fermato su quell’occhio bellissimo, che solo tu sai quant’è bello, che solo tu hai visto morire e rinascere e sai che non ha avuto molto e sai che merita tutto, sai che non siete più giovani, ma non definitivamente fottuti, e tu vuoi dargli tutto ma non sai come dirglielo, allora gli stringi quel braccialetto al polso e gli dici ecco, è su questo tavolino di metallo sporco che si consuma l’amore, è su questo mare silenzioso e rapito come noi, è tutto questo il nostro splendore.
Dispiace un tonfo nella parte finale, quando Mazzantini parla della Calabria in maniera del tutto macchiettistica, decisamente stereotipata e superficiale, ingiusta, rimandandone un’immagine falsata. A parte questo, Splendore è un libro che trascina nel buio e nella luce della fatica di trovare un senso al susseguirsi dei giorni e delle età, di crescere e di invecchiare, se non nell’amore. Ma l’amore per i protagonisti è anche malattia, alternarsi di estasi e vuoto, ricerca mai placata, domanda senza risposta, struggente nostalgia, legame tanto indissolubile quanto doloroso, mentre intanto la vita scorre recando in dono matrimoni, figli propri o della compagna, lavoro e soldi per Costantino, carriera universitaria per Guido, e case e amici e città dove piantare paletti, croci, gioie, zavorre che servono a restare a terra per paura di volare, ma a volte anche per evitare di cadere (nella pazzia? Nella tentazione di farla finita?). E c’è una morale sommersa che riappare immancabile nel procedere del racconto. Quel “chiedere è vergogna di un minuto, non chiedere è vergogna di una vita” elevato a motto da Izumi, uno dei personaggi centrali più positivi. Quel coraggio di esplorarsi, grazie all’altro, nella propria complessità, “di non restare ignoti a se stessi”.
Finale dolce-amaro e a sorpresa, proprio a un passo dalla realizzazione dell’antica promessa, di quel sogno inseguito per tutta una vita. Con parole che restano a lungo nella memoria, dopo aver chiuso il libro. Pronunciate da Guido col mare davanti. E dentro. Sai come si chiamano le mimose, ragazzo? Il fiore che si vergogna. Sono di buon augurio a chi si mette in viaggio. Adesso scendono nell’acqua, battezzano il blu. Ma tu non vergognarti del viaggio. La vita, credimi, non è un fascio di speranze perdute, un puzzolente ricamo di mimose, la vita raglia e cavalca nel suo incessante splendore.
Si potrebbero azzardare paragoni arditi. La poetica di Virginia Woolf in Orlando, con il sentimento sublimato in una figura che sfida e sfugge le categorie di genere, le costrizioni sociali e il passare del tempo. Perfette restano, da trascrivere umilmente in chiusa senza aggiungere nulla, le parole trovate dall’editor Mondadori per la quarta di copertina. “Margaret Mazzantini ci affida un romanzo ipnotico che avanza con l’urgenza folle e anticonformista di un narratore che rivendica il diritto di trasformare la vergogna in bellezza. E alla fine sappiamo che ognuno di noi può essere soltanto quello che è. E che il vero splendore è la nostra singola, sofferta diversità”.
Splendore, di Margaret Mazzantini. Oscar Mondadori, 2013
Teresa Pittelli