* La casa a patio della città della storia è fondata su un principio di introversione e di isolamento dall’esterno, quasi un recinto, che obbliga le stanze ad aprirsi verso lo spazio centrale. A questa forma – sviluppatasi in epoca moderna – chiusa su sé stessa, e aperta soltanto mediante il vuoto zenitale del patio, si oppone la casa belvedere, il cui perimetro per tutta la sua estensione si apre mediante grandi finestre tese a proiettare l’interno verso il paesaggio.
Il patio da me proposto a Badolato, in un’area destinata a verde e impianti sportivi, è il frutto di un riassemblaggio di parti diverse, le quali si legano intorno a una successione di spazi scoperto/coperto/scoperto, che rimangono delimitati e protetti da una quinta di setti murari, pieno/vuoto, senza rinunciare alla relazione diretta con il paesaggio. L’istinto umano tende a manifestare una volontà di chiusura verso il mondo, come una sorta di difesa, in maniera istintuale. E una delle forme nelle quali l’architettura materializza questo istinto universale e inestinguibile è proprio il patio.
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Che tipo di rapporto c’è tra natura e costruzione, in architettura.
Un nuovo oggetto può irrompere nella natura trasformandola, può assecondarla mascherandosi in essa. Ho preferito relazionarmi per determinare una nuova condizione di natura. Da questo sono partito. Dall’idea che il nuovo oggetto deve autorappresentarsi, avere una sua determinata, originale, capacità d’espressione, ma in relazione agli altri spazi, sempre trovando compimento nella natura, che seco deve accoglierlo. In una parola tutto questo costituisce il topos, in uno con la posizione del manufatto rispetto alla strada, la distanza rispetto ad essa e alle dimensioni del lotto su cui insiste.
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In poche parole il perché di quella forma?
Alla fine, ogni mia opera realizzata, o anche solo disegnata, a me appare come fosse sempre la stessa: la ripetizione degli elementi dell’architettura, l’applicazione delle regole, delle proporzioni, la verifica del rapporto aureo nelle piante e nei prospetti. Lavoro rifacendomi alla memoria, consciamente e inconsciamente, sedimentata e arricchita da riferimenti agli architetti dell’antichità e a quelli contemporanei, alla storia intesa nella sua complessità, ma anche alla tecnologia, e mai sono alla ricerca di forme per destare meraviglia. L’architettura non ha tempo, è fatta per durare, al di là degli stili. L’idea di tradizione mi sorregge sempre e non è incompatibile con quella di innovazione, poiché quando si nega all’architettura la possibilità di vincolarsi alla tradizione la si pone a un passo dallo sradicamento, vale a dire, dall’incapacità di appartenere a un luogo e di poter continuare la cultura di quel luogo
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Che relazione c’è tra forma e bellezza in architettura ?
La bellezza di un’architettura non dipende tanto dalla sua costruzione e dai suoi interni, quanto dal luogo su cui sorge, dal rapporto che stabilisce con il paesaggio e/o con l’intorno urbano, con la città nel suo complesso. Quanto più una forma è essenziale, tanto più è aderente al senso di ciò che deve raccontare. Una forma complessa è una forma che distrae dal significato. Una forma essenziale esprime direttamente il suo senso. Tutto questo. Una forma essenziale che aspira ad esprimere direttamente il suo senso, determinerà nel tempo, anche per questa opera, la sua capacità di essere funzionalmente reversibile. Vale a dire potrà con facilità, senza dover intervenire nella sua espressione architettonica, essere destinata a qualsiasi si altra funzione.
Pur rimanendo un distillato di un’idea complessa.
La Legge n. 717/1949 “arte negli edifici pubblici” rilanciata da un più recente decreto del Ministero delle Infrastrutture, del 2007, prevede l’obbligo – per edifici pubblici nei cui quadri economici compaiono lavori superiori a un miliardo delle vecchie lire (ca. €. 500.000,00 di oggi) – di destinare il 2% alle opere d’arte, le quali devono essere concepite sin dalle prime fasi del progetto architettonico, la cui inottemperanza determina la non collaudabilità dell’opera stessa.
Nel caso di specie non ricorreva l’obbligo, ma per scelta si è proceduto comunque.
E’ stato così un raro caso: trasformare un’opera tesa a diventare nel tempo un luogo d’arte, di cultura e di aggregazione sociale, pur nascendo con una destinazione d’uso ben definita, rigida quasi, attraverso il rapporto dialettico – che esiste tra l’architettura con la pittura di Roberto Giglio (posta all’interno), la scultura di Gianni Verdiglione (all’esterno) – e il dialogo con l’intorno paesaggistico, quale risultato di una nuova condizione di natura.
* Giuseppe Carnuccio, architetto
Non vedo tutta questa grande concezione archittettonica!