C’è un tempo per i pennarelli e uno per “uozzapp”…

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Le bimbe stipate nella cameretta e le mamme in salotto, a divorare merendine lasciate a metà dalle inappetenti seienni e a sorseggiare un caffè come al solito troppo leggero.  Sembrava proprio un sabato pomeriggio come tanti altri. “Si sono lasciate dopo quattro anni di asilo insieme ma sono rimaste così legate”. Dice a un certo punto una di noi con aria sognante, mentre dal corridoio si sente avanzare una mandria di piedini scalzi.

“Abbiamo fatto delle bellissime foto, posso mandartele dal mio uozzap, se vuoi” mi si presenta davanti la più ricciola della banda. “Grazie amore – dico, sprovveduta come una ragazza di campagna – chiederò alla tua mamma di mandarmele”. “No – insiste – posso inviartele dal mio uozzap”.

“Tu non hai whatsapp” insisto io indugiando sulla pronuncia mentre cerco sostegno negli sguardi delle altre mamme, divenuti improvvisamente truguli come vino andato a male.  “Sì che ce l’ho” mi sfida tronfia la ricciola. “E questo è il mio i-phone”. Era abbastanza, ma non era tutto. Una dopo l’altra le ex compagne di asilo si fanno avanti: “Ce l’ho anch’io”, “Io pure, eccolo”, “E questo è il mio!”.

Sento sulle spalle tutto il peso di una sconfitta generazionale, mi guardo intorno e negli sguardi tra loro complici delle altre mamme comprendo il solco profondo che il passaggio dall’asilo alla scuola elementare ha scavato tra noi.  Mentre mia figlia si lascia andare alla più grande crisi di pianto a cui abbia mai assistito urlando “lo voglio anche io!”, prendo coscienza che bisognerà tenere duro, che ora è il momento di recuperare tutte le parole giuste che possiedo sull’argomento e di metterle in fila ben bene per farle apparire chiare a lei, convincenti alle sue amiche, pacate alle altre mamme. “Tesoro, a te piace ritagliare, colorare, smembrare e ricomporre vecchi giocattoli. Sdraiarti sul pavimento circondata da pennarelli. Leggere il libro sul corpo umano, tentare il salto dei cinque gradini dalle scale di casa, raccontarmi nei dettagli storie avvincenti di caccole e pipì; osservare peli e capelli nel microscopio, riempire tazzine e ciotole di magiche pozioni fatte di acqua farina e cotone” le ricordo asciugando le sue lacrime sulle guance arrossate da un’insana invidia. “Hanno tutte il telefonino – mi rimprovera come se non esistesse nient’altro – e tu invece dici sempre che io non devo toccare neanche il tuo. Perché? Perché loro ce l’hanno e io no?”.

Perché loro lo hanno? Mi viene da chiedere alzando la voce come vorrei, come in una di quelle scene da film in cui bisogna guardare dritto nella telecamera e dire chiaramente come stanno le cose. “Non so perché loro ce l’hanno, ma so che tu continuerai a non averlo. Perché è inutile e dannoso per una bambina di sei anni.  E perché io mi auguro che tu continui a essere la bambina creativa che sei e non… una precoce adolescente lobotomizzata dalle app e dalle chat”. Oddio, non sto più parlando alle bambine. “Ma sai ogni quanto le faccio una ricarica? Passano settimane”. Una mamma tenta una manovra d’emergenza. Un’inutile circumnavigazione della questione.

Tra qualche anno probabilmente, tutto questo mi sembrerà un problema inutile. “Cederai anche tu, non farti illusioni” mi ha predetto qualche tempo fa un’amica con figli più grandi. Per ora mi tengo le mie teorie romantiche sull’infanzia da preservare e, fosse anche un’illusione, ne vado fiera. Almeno fino a quando il suono di una notifica di whatsapp non mi ricorderà che il tempo dei pennarelli e della magia delle pozioni nei barattoli è davvero finito!

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